LETTERA DEL PRESIDENTE Missionari del Regno - (Ut Uunum Sint 2 2024)
Carissimi fratelli e amici,
nella denominazione del nostro Istituto vi è l’aggettivo “missionari” che, proprio perché è nel nome, non rappresenta una ridondanza letteraria, ma indica una peculiarità che contribuisce a definire la nostra identità.
In verità, il rischio di considerare l’aggettivo un appellativo simbolico, privo di conseguenze pratiche, è forte: un po’ per la cultura che ci è stata trasmessa e che neanche gli insegnamenti del Concilio sono riusciti a cancellare del tutto, la cultura per la quale missionario è chi lascia il proprio ambiente e si trapianta altrove per annunciare il Signore Gesù a chi magari non lo conosce ancora e lo ha conosciuto da troppo poco tempo; un po’ perché la qualifica appare particolarmente attuale e di moda dopo la fortunata diffusione dello slogan «Chiesa in uscita».
Vale la pena allora interrogarci sul senso profondo che l’aggettivo può avere per noi, per non rischiare di far mancare alla nostra vocazione un carattere peculiare.
Siamo tutti convinti che la missionarietà affonda le sue radici nel Battesimo ed è parte integrante del nostro essere cristiani: «come il Padre ha mandato me, così io mando voi» (Gv 20,21). Ma se fosse solo questo, perché aggiungere tale aggettivo al nome dell’Istituto? Peccheremmo di appropriazione indebita rispetto a tutti gli altri battezzati in Cristo.
Una risposta penso di trovarla nel fatto che mettere tutta la nostra vita e il nostro ministero al servizio del Regno in modo da essere di tale servizio segno visibile e credibile, se per gli altri presbiteri è una tensione, per noi consacrati deve essere un dovere di stato.
Sul piano concreto le conseguenze sono molteplici e costituiscono la visibilità della testimonianza che siamo chiamati a dare come “Sacerdoti missionari della Regalità”: vale a dire che tutti devono poter constatare che per noi gli interessi del Regno diventano prioritari rispetto ad ogni altro interesse.
Questo emergerà evidente nel mio stile e nel mio tenore di vita (e qui la povertà evangelica e la libertà da ogni possesso diventano profezia), nelle modalità con cui esercito il ministero e vivo le relazioni (la verginità e l’obbedienza come disponibilità senza riserve e accoglienza calorosa, rispetto per chiunque e dialogo empatico devono essere i tratti emergenti dei nostri rapporti), nel modo con cui organizzo il mio tempo e strutturo i miei impegni (chiunque deve poter cogliere che la nostra vita è una vita “dedicata”, una pro-esistenza), nell’intensità con cui curo la mia vita interiore (bisogna chiedersi: in che misura ogni giorno io parlo “con” Dio rispetto a quanto parlo “di” Dio) e rifuggo da ogni tentazione di superficiale mediocrità e di allentamento della tensione alla radicalità.
Possono apparire annotazioni scontate! Io credo che non lo siano affatto, perché se lo fossero noi dovremmo essere in ogni circostanza fuoco che arde e il nostro respiro farebbe riecheggiare il medesimo cantico con cui una giovane donna di Nazareth duemila anni fa colmò di gioia incontenibile la casa, il cuore e il grembo di un’altra donna, che fino a quel momento aveva fatto solo esperienza di sterilità.
Lascio a ciascuno il compito di aggiungere altri elementi che possano aiutarci a declinare e ad incarnare la missionarietà che la nostra vocazione ci dona e ci domanda.
Vi chiedo di pregare intensamente per la prossima Assemblea elettiva, perché il Signore ci mostri dove dobbiamo andare.
A tutti auguro il dono pasquale della Pace.
don Giuliano